giovedì 12 novembre 2009


Ma che amarezza, amore mio,

veder le cose come vedo io
e aver perfino dimenticato
che non son nato come voglio io,come voglio io.

Che delusione, povero amore,
vivere la vita con questo cuore
e non volere perdere niente
e amare ancora come l’altra gente,
come l’altra gente.

Basterebbe soltanto ritornare bambini e ricordare...

E ricordare che tutto è dato, che tutto è nuovo
e liberato ...e liberato!

Claudio Chieffo, Amare ancora

martedì 20 ottobre 2009

Don Giorgio


Don Giorgio e il Drago. Don Giorgio Pontiggia, prete in Milano, che se ne va a neanche settant’anni. E il Nemico dell’uomo di nuovo atterrato dalla lancia di un cristiano. Scusa, lettore, se mi prendo le pagine leggere della “Rosa dei Tempi” per dire due parole di una morte pesante. Scusa, perché se una sera di quarant’anni fa esatti io sono stato ri-partorito alla vita, questo è successo perché ho incontrato don Giorgio Pontiggia. Adesso, nei prossimi giorni, mesi, anni, verranno giù le cateratte. Verranno giù dalle Americhe e dalle Oceanie, dall’Africa e dall’Asia, tutti coloro che per un tratto di strada, piccolo o grande che fosse, hanno incrociato questo piccolo immenso uomo. Aveva le viscere a portata di mano, la presa d’acciaio, la parola dritta e dura come una lama corsa, don Giorgio. Non c’era scampo per l’adolescente davanti alla sua urgenza paterna di vederti col cuore e la mente al posto giusto. Parleranno e testimonieranno in tanti di questo indomabile educatore (cioè di uno che tira fuori da te tutto il bene, il bello, il giusto che Dio ha messo in te, anche se ti senti uno scarafaggio).

Don Giorgio aveva neanche trent’anni. Io neanche quattordici. Ci siamo incontrati lì. Pensate, dopo di me ha trascinato al riconoscimento della grande Presenza decine di migliaia di ragazzi. Non è una cifra sborona. Per dire, mia figlia Gloria aveva 18 anni il giugno scorso, quando don Giorgio era ancora lì, con lei e i suoi amici, dopo le migliaia e migliaia di Glorie e di amici con cui aveva conversato, cenato, inventato vacanze e doposcuola, caritative e volantinaggi, cineforum e battaglie culturali, cooperative di quartiere e scuole, scuole domestiche e scuole parrocchiali, scuole per grandi e scuole per piccini…

Don Giorgio è arrivato nella mia parrocchia, la parrocchia di Santa Maria alla Fontana, quartiere Stelvio-Farini, Milano, sul finire dell’anno 1970. C’era nell’aria la rivoluzione e noi ragazzini oscillavamo tra il Movimento Studentesco, Lotta Continua, Avanguardia Operaia. Come se niente fosse, a costo di vedere (come poi accadde) la fuga in massa verso l’utopia, don Giorgio piantò nella nostra comunità giovanile la sfida dell’ipotesi di Gesù come chiave di volta di tutta la vita. Inizialmente lo seguimmo in pochi, piccoli pulcini affascinati da un’umanità arrembante, sempre in lotta, sempre resistente a ogni conformismo, sempre pronta a ripartire, qualunque incoerenza tu avessi dimostrato. Ma poi molte anime, giovani e meno giovani, vennero conquistate. In breve tempo si formò intorno a questo prete singolare – che non le mandava a dire a nessuno, tanto meno ai propri superiori – una comunità vivace e numerosa di figli e di padri, di bambini e di nonni. Una comunità che imparò da lui che o Dio è tutto, o non è niente. Don Giorgio capovolse ogni regola e reinventò l’oratorio secondo forme e contenuti che non ho più visto applicati in giro, almeno con quel suo entusiasmo, forza, decisione e, oserei dire, slancio rivoluzionario. Dai quindici anni in su, in oratorio non si va più per fare i bulletti, giocare al pallone o al ping pong, emarginando i più piccoli. Si va per servirli, i piccoli, per fare catechismo e per farli giocare (caritativa), per andare in gita con loro e per farli studiare, iniziandoli a giudicare ogni cosa alla luce dell’“amicizia di Gesù”.

Una settimana rivoluzionaria
Lo raccontavo la sera della vigilia della morte di Giorgio a mia figlia Gloria. La nostra settimana “pontiggiana” sul principiare degli anni Settanta è la seguente: lodi a scuola (mentre intorno a te magari gridano “più croci e più leoni per i servi dei padroni”) e presenza in assemblea come comunità cristiana (mentre magari ti menano al “Satana, Lucifero, Belzebù, Paolo VI il diavolo sei tu”). E poi, quando non sei di turno in oratorio per la caritativa o il catechismo con i bambini, studio con i tuoi compagni a scuola, ora terza, Angelus, sesta e vesperi. Tutti i venerdì sera c’è, infine, la meditazione della liturgia domenicale. E domenica mattina, tutti gli adolescenti e la comunità giovanile alla Messa delle 11. La sua Messa. Quella delle sfuriate contro la vita borghese e dei silenzi pietratombali dei fedeli, atterriti davanti ai decibel del predicatore che faceva tremare i muri e a cui si gonfiavano paurosamente le vene del collo. Insomma cristianesimo totale e di comunità. Poiché, insegna don Giorgio, «Cristo è la risposta alla nostra sete di felicità» e «l’Essere è comunione».

Stiamo parlando di cose che anticipano Comunione e Liberazione. E che nel pieno dell’ubriacatura ideologica (della gioventù in piazza e delle azioni cattoliche in fuga nella scelta religiosa) vedevano protagonisti ragazzini tra i 14 e i 18 anni. Don Giorgio ha insegnato a generazioni di giovani a non avere timore di nulla. Il peccato più grave, quello sì da temere sopra ogni cosa? Il non essere seriamente impegnati con se stessi, il non prendere sul serio ogni desiderio, dalla politica alla simpatia per una ragazzina. «Il nulla non si sceglie – diceva il don – nel nulla ci si trova, ci si scivola per disimpegno con la vita».

Don Giorgio fece di ragazzi adolescenti dei veri piccoli grandi uomini. Per lui un sedicenne poteva guidare una comunità e, come successe ad Antonio Simone (mio “capo comunità giovanile” e cofondatore di Tempi), era così convinto di potere rischiare sui suoi ragazzi, che era capace di affidare in tutta tranquillità a un paio di ragazzini la responsabilità di portare in vacanza pazzi pericolosi o tossici incalliti. Ci ha messo addosso la tempra dei senzapaura, don Giorgio. E dei senzapatria. Così, quando fu il tempo, ci consegnò al suo stesso padre, don Luigi Giussani, perché anche noi conoscessimo di quale pasta era fatto lui. E così Giussani ci conobbe. Anzi, ci riconobbe. Poiché la farina del mulino pontiggiano si riconosceva di primo acchito e, come diceva il Giuss, «non c’è un prete che come don Giorgio ha l’educazione così nelle viscere, per cui i suoi si riconoscono subito». Irruento, focoso, devastatore di ogni luogo comune, don Giorgio è stato certamente un prete superiore per umanità e forza ai preti resi famosi dalla pubblicità progresso (penso ai don Milani, a i don Mazzolari eccetera), così avida di antipapi. Eppure, anch’egli che sapeva litigare molto più ferocemente dei vari preti del cosiddetto dissenso – e litigare di brutto – con superiori e monsignori, conosceva e, soprattutto, praticava e insegnava la virtù dell’obbedienza. Don Giorgio ha mantenuto la promessa fatta un giorno al mio padre biologico, fatta dopo avermi visto saltare giù come una scimmia dal primo piano del palazzo dell’oratorio. «Questa bestia diventerà un uomo». Porca miseria, don, come ci hai sempre azzeccato sui tuoi ragazzi!

Impossibile restare indifferenti
Dalla metà degli anni Ottanta, don Giorgio era diventato rettore dei licei del Sacro Cuore di Milano, oltre che leader indiscusso di Gioventù Studentesca. Innalzato sugli scudi giovanili, non c’era studente liceale che potesse rimanere indifferente, in un modo o nell’altro, pro o contro, nei confronti di quella furia della natura. Quanti giorni felici! E quanti dolori! Quanti ragazzi hai tolto dalla strada del nulla e quanti hai accompagnato a morire, di cancro, di incidente, di accidente misterioso, nella gioia e nella speranza in Cristo. Ti devo dire la verità, caro Giorgio, quando l’altra sera ti ho visto, ed era domenica sera, ed eri appeso a una flebo, ed eri in coma irreversibile, privo di conoscenza, addormentato, appeso alle amorevoli cure dei tuoi amici, delle tue amiche, il giorno prima della tua traversata verso Dio e verso il nostro caro Giuss, i tuoi cari e tutti gli amici, Lidia e tutti gli altri che ci hanno preceduto, appena fuori la tua casa in cui tutti i volti, sia pur nella mestizia e nel dolore, erano tutti – ma proprio tutti – caldi e lieti, ho incontrato un ragazzo dei tuoi che non riconoscevo nella sua bellezza e grandezza di uomo. Ho incontrato Pietro, quello che hai pure bocciato una volta – proprio tu che non volevi mai bocciare nessuno – e noi – dico io, mia moglie e i quattro nostri ragazzini – che eravamo lì a pendere dalla lingua diritta, tranquilla, autorevole, di quel ventenne lì. Pietro, il Pietro che hai tirato su tu, che ha vent’anni e che ti dice a bruciapelo: «Ho visto don Giorgio, ho visto la certezza della vittoria di Cristo sulla morte».

Luigi Amicone, Don Giorgio Pontiggia, il costruttore di uomini (19 ottobre 2009, tempi.it)

sabato 17 ottobre 2009


A me, da un certo punto di vista, non è che interessa studiare; io non so dove inizia e dove finisce lo studio, a me interessa vivere. A me interessa poter vivere veramente, anche perché la mia vita è l’unica cosa che ho; tutto quello che può sostenere un’intensità di vita m’interessa, e lo studio è questo - la possibilità di ascoltare la voce, la parola, la testimonianza di chi attraverso lo spazio e il tempo ci vuole dire qualcosa, ci vuole far guardare qualcosa.

Ma dove inizia e dove finisce lo studio? Per me, oggi, viaggiare in treno, è stato studiare. Se tu guardi un albero, vedi una cosa bella; “Chi l’ha fatto quest’albero? Perché quest’albero è diverso da quell’altro?”. Vedi il mare, e chi può dire di averlo visto una volta per tutte?

[...]

Non è vero che la nostra è una vita banale, possiamo viverla in maniera banale; ma studiare è la cosa meno banale del mondo, se vogliamo, perché, come diceva un poeta contemporaneo, la poesia, l’arte, la filosofia sono come quando esci dalla posta e un tipo ti fa: “Mi scusi, le vorrei parlare di una cosa molto personale, un grande segreto che mi porto dentro, che non ho mai detto a nessuno e tutto si gioca nella disponibilità: mi può ascoltare per cinque minuti, lei?”. E lì si gioca: lo ascolterai o non lo ascolterai?

Le cose diventano interessanti a partire dalla prospettiva dalla quale le guardi; io credo che bisogna avere l’attenzione di ascoltare quello che veramente ci preme. Tutte le volte che ho fatto una domanda vera, che mi premeva, che mi metteva in discussione, che mi aveva fatto piangere, la realtà mi ha sempre parlato e mi ha fatto fare un passo, e di questo sono contento.

Edoardo Rialti, da La realtà in trasparenza: leggere il mondo con il Signore degli Anelli (2 aprile 2009) 

sabato 10 ottobre 2009


Occupatevi dell'opera vostra, cercate di compierla nel migliore dei modi, e tutto ciò che fate, fatelo perché neanche un solo istante della vostra vita vi scorra accanto senza senso o contenuto.

Pavel Florenskij

martedì 7 luglio 2009

Maturità


Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo. E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. Eri con me ed io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature, che, se non fossero in te, neppure esisterebbero.
Mi hai chiamato, hai gridato, hai infranto la mia sordità. Mi hai abbagliato, mi hai folgorato, e hai finalmente guarito la mia cecità. Hai alitato su di me il tuo profumo ed io l'ho respirato, e ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace.


Sant'Agostino

lunedì 25 maggio 2009




















Il male che faccio non è il mio male,
sono più misera di quanto credevo;
il male che ho dentro queste mie ossa,
Padre, mi tiene lontano da te.

Passa il mio tempo, non son sincera.
Amo la gente, non son sincera.
Vivo il presente, non son sincera.
Prego la sera, non son sincera.

Fammi incontrare chi sa soffire,
chi sa donare fino alla fine,
chi è sincero, chi è reale
colui ch'io possa almeno seguire.

Adriana Mascagni, Non son sincera

giovedì 14 maggio 2009


Dio invisibile ha voluto mostrarsi nella carne e vivere come un uomo, perchè le creature carnali non potevano amare se non nella carne. Solo così potevano essere condotte verso l'amore salvifico della Sua Persona: in questo modo Cristo le aveva liberate da ogni amore carnale, soltanto con la grazia della Sua Presenza carnale.

San Bernardo

mercoledì 29 aprile 2009


Aspetto che passi la notte,

notte lunga da passare
e sento il mio cuore che batte
e non smette di sognare…

Vorrei ritornare bambino nella casa di mio padre,
le storie davanti al camino e la voce di mia madre…

La notte che ho visto le stelle non volevo più dormire,
volevo salire là in alto per vedere…
e per capire

Ascolto il silenzio dei campi
dove sta dormendo il grano,
il giorno fu pieno di lampi,
ma ora il tuono è già lontano…

Vorrei ritornare bambino nella casa di mio padre,
le storie davanti al camino e la voce di mia madre…

La notte che ho visto le stelle non volevo più dormire,
volevo salire là in alto per vedere…
e per capire

La luna nasconde i suoi occhi
come donna innamorata,
il fiume l’aspetta nell’acqua
ed una notte l’ha baciata…


Vorrei ritornare bambino e guardare ancora il fuoco,
la storia più grande è il Destino che si svela a poco a poco:
la notte che ho visto le stelle non volevo più dormire,
volevo salire là in alto per vedere…
e per capire

Claudio Chieffo, La notte che ho visto le stelle

venerdì 27 marzo 2009


Ma che cos'è la storia? È un dar principio a lavori secolari per riuscire a poco a poco a risolvere il mistero della morte e vincerla un giorno. Per questo si scoprono l'infinito matematico e le onde elettromagnetiche, per questo si scrivono sinfonie, ma non si può progredire in tale direzione senza una certa spinta. Per scoperte del genere occorre un'attrezzatura spirituale, e in questo senso, i dati sono già tutti nel Vangelo. Eccoli. In primo luogo, l'amore per il prossimo, questa forma suprema dell'energia vivente, che riempie il cuore dell'uomo ed esige di espandersi e di essere spesa. Poi, i principali elementi costitutivi dell'uomo d'oggi, senza i quali l'uomo non è pensabile, e cioè l'idea della libera individualità e della vita come sacrificio.

Boris Pasternak, da Il dottor Zivago

giovedì 12 marzo 2009


Estate 2008
Esci frettolosamente dal negozio di una stazione di servizio già vista in decine di film, inforchi la bicicletta fuori misura per te e pedali verso casa, veloce anche se non conosci ancora benissimo la strada. L'aria fresca di quella mattinata assolata ti accarezza la pelle, sulla quale è ancora impresso l'odore dell'acqua di lago. Imbocchi la traversa giusta e ti lasci andare giù per la discesa, a farti inghiottire dalla boscaglia verde smeraldo. Ti salta all'occhio una macchia diversa, in movimento: con le cuffie come due mezze arance, mentre taglia l'erba del giardino accanto, sorride a te - che controlli a malapena il manubrio mentre cerchi di ricambiare timidamente. Un sorriso gratuito, che ti apre il cuore e lo inonda di un certezza già incontrata, già conosciuta. Le ruote corrono, e ormai sei arrivata, ma quel lungo istante non puoi scordarlo più, ti accompagna per sempre.

Marta

martedì 10 marzo 2009


To what serves mortal beauty —  dangerous; does set danc-
ing blood — the O-seal-that-so feature, flung prouder form
Than Purcell tune lets tread to? See: it does this: keeps warm
Men's wits to the things that are; what good means—where a glance
Master more may than gaze, gaze out of countenance.
Those lovely lads once, wet-fresh windfalls of war's storm,
How then should Gregory, a father, have gleanèd else from swarm-
ed Rome? But God to a nation dealt that day's dear chance.
To man, that needs would worship block or barren stone,
Our law says: Love what are love's worthiest, were all known;
World's loveliest — men's selves. Self flashes off frame and face.
What do then? how meet beauty? Merely meet it; own,
Home at heart, heaven's sweet gift; then leave, let that alone.
Yea, wish that though, wish all, God's better beauty, grace.


A che serve la bellezza mortale — pericolosa; muove a dan-
za il sangue — l'O-suggellate-così-quel-volto, forma più fiera lanciata
di quella a cui invita l'aria di Purcell? Vedi, fa così: tiene calda
l'intelligenza dell'uoo alle cose che sono; a quanto significa il bene — dove un'occhiata
domina meglio d'uno sguardo fisso, sguardo di sconcerto.
Un tempo quei ragazzi belli, rorido fresco frutto caduto per tempesta di guerra,
come li avrebbe allora spigolati Gregorio, un padre, dalla affol-
lata Roma? Ma Dio a una nazione offrì preziosa fortuna di quel giorno.
All'uomo, che un tempo adorò roccia o sterile pietra,
la nostra legge dice: Ama le cose d'amore più degne, fossero tutte note;
del mondo le più amabili — il sé dell'uomo. Il sé splende dalla forma e dal volto.
Che fare allora? come incontrare bellezza? Basta che l'incontri; riconosci,
in cuor tuo, del cielo il dolce dono; poi parti, abbandonalo.
Sì, augura, a tutti augura, di Dio la più graziosa bellezza, la grazia.


Gerard Manley Hopkins, To what serves mortal beauty?

sabato 28 febbraio 2009



Venerdì 20 febbraio 2009
E' una delle sere più fredde del mite inverno del tuo paesino nella campagna dauna, e il vento ti fischia nelle orecchie, sorde a quei rari cenni di vita dalla strada di periferia deserta. All'improvviso gli occhi si fermano su un'immagine inaspettata dietro una porta a vetri. Illuminato da una luce vicina e calda, non riesci però a distinguere bene i tratti di quello che sembra essere un ragazzo, forse appena più grande di te. I capelli ricci e neri, la testa reclinata su un lato, è lì seduto su una vecchia sdraio bianca e celeste - come ne vedi tante nelle sere d'estate, quando gli anziani del paese, con le loro facce vissute, si mettono fuori ad aspettare una ventata d'aria fresca e qualche buona nuova. Ha lo sguardo fisso dritto davanti a sè, nel vuoto, e ti tornano in mente le ultime parole di uno di quei film che tuo padre ti ha fatto amare: "Da dove vengo? Dove vado? Quanto mi resta ancora?". E non puoi staccare gli occhi da quel ragazzo già vecchio, finchè i fari di un'auto ti richiamano a guardare il tuo cammino di una fredda sera di febbraio.

Marta

sabato 24 gennaio 2009


Quando dette un morso al bavarese allo zenzero, Harold ebbe finalmente l'impressione che tutto sarebbe finito per il meglio. Qualche volta, quando ci ritroviamo persi, fra paure e sconforto, tra routine e perseveranza, disperazione e tragedia, dobbiamo ringraziare Dio per l'invenzione del bavarese allo zenzero. E per fortuna, anche in mancanza di biscotti, possiamo sempre sentirci rassicurati dal tocco di una mano amica, o da un gesto gentile e affettuoso, o da un discreto incoraggiamento a prendersi cura di sè, o da un caldo abbraccio, o da un'offerta di conforto, per non parlare di barelle d'ospedale, tappi per il naso e danesi avanzati... e segreti detti sotto voce, chitarre Fender Stratocaster, e magari un occasionale racconto. E dobbiamo ricordare che tutte queste cose, le sfumature, le anomalie, le sottigliezze, che riteniamo marginali nella nostra vita quotidiana, esistono invece per un motivo molto più alto e nobile: sono qui per salvarci la vita. So che l'idea può sembrare strana, ma sono sicura che, guarda caso, è anche vera. E così avvenne che fu un orologio da polso che salvò Harold Crick.

finale di Stranger Than Fiction