martedì 27 maggio 2008

Suil a Gra, Paolo!


Algo se muere en el alma, cuando una amigo se va...
Cuando un amigo se va, algo se muere en el alma
cuando un amigo se va; algo se muere en el alma,
cuando un amigo se va.
Cuando un amigo se va, y va dejando una huella,
que no se puede borrar; y va dejando una huella
que no se puede borrar.

No te vayas todavìa, no te vayas, por favor,
no te vayas todavìa
que hasta la guitarra mia llora cuando dice adiòs.

Un pañuelo de silencio a la hora de partir.
A la hora de partir...
A la hora de partir porque hay palabras que hierem,
y no se pueden decir...

El barco se hace pequeño cuando se aleja en el mar.
Cuando se aleja en el mar...
Cuando se aleja en el mar y cuando se va perdiendo,
que’ grande es la soledad...

Ese vacío que deja el amigo que se va.
El amigo que se va...
El amigo que se va, es como un pozo sin fondo
que no se puede llenar...

Sevillanas del adiòs

lunedì 26 maggio 2008

Ride la luna ciara
sora castel Toblin,
mi 'ncordo la chitara,
ti 'ncorda 'l mandolin
e nente 'n barca.

Dal vento, senza remo,
ne lasserem portar
e alegri canteremo
fazendo risonar
la val del Sarca.

E quando 'n mez al lac la melodia
passerà 'n sol minor,
mi te dirò le pene del me cor
e ti te me dirai che te sei mia.

Tornadi su la riva,
felize te ofrirò
en ramoscel de oliva
e po' te baserò
la boca bela.

E taserem, ma alora
en coro de ciciòi
saluderà quell'ora
e passerà su noi
l'ultima stela.

E quando al primo sol la melodia
tornerà 'n mi magior,
ti, co' la testa bionda posata sul me cor,
te me farai sentir che te sei mia.

Serenata a Castel Toblin (canto trentino)

mercoledì 21 maggio 2008


- Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l'alma sì; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch'ogni mia colpa lave. -
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar invoglia e sforza.

Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v'accorse e l'elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide e la conobbe: e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

Non morì già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l'acqua a chi col ferro uccise.
Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise:
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: "S'apre il ciel; io vado in pace".

D'un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a' gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e 'l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.

Torquato Tasso, dalla Gerusalemme liberata XII

lunedì 19 maggio 2008

The day was dying
and the wind was sighing
As I lay crying in my prison cell
And that auld triangle,
went jingle jangle
Along the banks of the Royal Canal.

Brendan Behan,
da The Auld Triangle

mercoledì 14 maggio 2008


Giunto è già 'l corso della vita mia,
con tempestoso mar, per fragil barca,
al comun porto, ov'a render si varca
conto e ragion d'ogni opra trista e pia.

Onde l'affettüosa fantasia
che l'arte mi fece idol e monarca
conosco or ben, com'era d'error carca,
e quel c'a mal suo grado ogn'uom desia.

Gli amorosi pensier, già vani e lieti,
che fien or, s'a duo morte m'avicino?
D'una so 'l certo, e l'altra mi minaccia.

Né pinger né scolpir fie più che quieti
l'anima volta a quell'amor divino
c'aperse a prender noi 'n croce le braccia.

Michelangelo Buonarroti, Rime CCLXXXV

martedì 13 maggio 2008


Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta per sé, in sé, nella sua stessa natura. Esigevano che quella gamba fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio con cui costruivano le cattedrali. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto. Un sentimento incredibilmente profondo che oggi definiamo l’onore dello sport, ma a quei tempi diffuso ovunque. Non soltanto l’idea di raggiungere il risultato migliore possibile, ma l’idea, nel meglio, nel bene di ottenere di più. Si trattava di uno sport, di una emulazione disinteressata e continua, non solo a chi faceva meglio, ma a chi faceva di più; si trattava di un bello sport, praticato a tutte le ore, da cui la vita stessa era penetrata. Intessuta. Un disgusto senza fine per il lavoro mal fatto. Un disprezzo più che da gran signore per chi avesse lavorato male. Ma una tale intenzione nemmeno li sfiorava. Tutti gli onori convergevano in quest’unico onore. Una decenza, e una finezza di linguaggio. Un rispetto del focolare. Un senso di rispetto, di ogni rispetto, dell’essenza stessa del rispetto. Una cerimonia per così dire costante. D’altra parte, il focolare si confondeva ancora molto spesso con il laboratorio. E l’onore del focolare e l’onore del laboratorio erano il medesimo onore. Era l’onore del medesimo luogo. Era l’onore del medesimo fuoco. Ogni cosa, dal risveglio, era un ritmo e un rito e una cerimonia. Ogni fatto era un avvenimento consacrato. Ogni cosa era una tradizione, un insegnamento; tutte le cose avevano un loro rapporto interiore, costituivano la più santa abitudine. Tutto era un elevarsi, interiore, e un pregare tutto il giorno: il sonno e la veglia, il lavoro e il misurato riposo, il letto e la tavola, la minestra e il manzo, la casa e il giardino, la porta e la strada, il cortile e la scala, e le scodelle sul desco. Dicevano per ridere, e per prendere in giro i loro curati, che lavorare è pregare, e non sapevano di dire così bene.

Charles Péguy, da L'argent

lunedì 12 maggio 2008


Per una vita così piena, così vissuta, così eterna, vale la pena fare fatica. Senza la fatica di mettersi in cammino, non ci sarà mai nessuno che cammina per me. Uno lo fa per un amore più grande, così grande da cambiare la vita! E cambiare la vita vuol dire cambiare ogni momento da qui a sempre: fare ogni cosa con la sua faccia nella coda dell'occhio, e gustare la pienezza sempre.

Anna Roberti, dalla lettera a Dante del 5 novembre 2007

sabato 10 maggio 2008


Ti sto scrivendo da Follonica, dove amo così tanto nuotare e nuotare e nuotare, con il mare che mormora la sua voce che riecheggia la musica del primo giorno del mondo, tutta attorno a me. Una città piena di gabbiani malinconici e di rondini gioiose, piena del prufumo delle buganville. Due anni fa passeggiavo qui da solo, sul far della sera: la città erà piena di gioie semplici -le madri che portavano i bambini a mangiare il gelato, coppie di ragazzi e ragazze mano nella mano con dolce trepidazione, i vecchi seduti sulle panchine a chiacchierare. La città era piena delle luci dalle finestre e dai lampioni ed anche in cielo splendevano le stelle, ma come puoi ben immaginare tra cielo e terra c'èra sulla linea dell'orizzonte come una linea nera, un salto di buio che separava nettamente le due zone. È allora che ho visto una minuscola luce muoversi sulla linea più nera dell'orizzonte. Una barca di pescatori aveva una luce accesa e sembrava che una stellina fosse scesa dal cielo e venisse verso di noi, verso di me. Ero senza parole dall'emozione: forse era un barca, forse no, chissà... Il messaggio per me era comunque chiaro: non siamo stati lasciati soli, noi poveri uomini, con le nostre povere luci contro il buio. Gesù -Earendil- Stella del mattino è sceso da noi con la Sua luce eterna. Eala Earendil!

Edoardo Rialti, dalla lettera del 9 luglio 2007

lunedì 5 maggio 2008

Ma cantare, sognare, ridere.
Splendido, da solo, in libertà.
Aver l'occhio sicuro,

la voce in chiarità.
Mettersi se ti va
di sghimbescio il cappello.
Per un sì, per un no,
fare un'ode o fare un duello.
Fantasticare
a caccia non di gloria o di fortuna
su un certo viaggio a cui si pensa,
sulla luna.
Se poi viene il trionfo,
ebbene, fatti suoi;
ma mai, mai diventare
un "come tu mi vuoi".
E seppur quercia o tiglio davvero non si è...
Se vuoi proprio non alto, ma farcela da sè.

da Cyrano de Bergerac

sabato 3 maggio 2008


DON MIGUEL E' l'amore dell'Eterno che mi consuma, padre.
(Si getta in ginocchio)
L'ABATE E cosa cercate qui, figlio mio?
DON MIGUEL Il castigo del Dio geloso; l'umiltà del cuore; l'amore del reale.

Oscar Vladislas de Milosz, da Miguel Mañara