sabato 24 gennaio 2009


Quando dette un morso al bavarese allo zenzero, Harold ebbe finalmente l'impressione che tutto sarebbe finito per il meglio. Qualche volta, quando ci ritroviamo persi, fra paure e sconforto, tra routine e perseveranza, disperazione e tragedia, dobbiamo ringraziare Dio per l'invenzione del bavarese allo zenzero. E per fortuna, anche in mancanza di biscotti, possiamo sempre sentirci rassicurati dal tocco di una mano amica, o da un gesto gentile e affettuoso, o da un discreto incoraggiamento a prendersi cura di sè, o da un caldo abbraccio, o da un'offerta di conforto, per non parlare di barelle d'ospedale, tappi per il naso e danesi avanzati... e segreti detti sotto voce, chitarre Fender Stratocaster, e magari un occasionale racconto. E dobbiamo ricordare che tutte queste cose, le sfumature, le anomalie, le sottigliezze, che riteniamo marginali nella nostra vita quotidiana, esistono invece per un motivo molto più alto e nobile: sono qui per salvarci la vita. So che l'idea può sembrare strana, ma sono sicura che, guarda caso, è anche vera. E così avvenne che fu un orologio da polso che salvò Harold Crick.

finale di Stranger Than Fiction

venerdì 26 dicembre 2008


I'm a regular guy, not a movie star.

John Severson

domenica 21 dicembre 2008



Chris talked about how we are not defined by what we do. This was incredible to me because, as you know, I always define myself by how well I can do something, especially with work. This was amazing for me to hear, but it was even more amazing when I got home because I thought that since I now knew that I wasn't defined by what I can do that I would not do my work as well. It was just the opposite, I found myself wanting to do a better good and enjoying it more.

Mio brother Nick, dalla lettera del 18 agosto 2008

lunedì 1 dicembre 2008

Come andò che maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino.

C’era una volta…

— Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori.

No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.

Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.

Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.

Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:

— Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino.

Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo, ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile, che disse raccomandandosi:

— Non mi picchiar tanto forte!

Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!

Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; apri l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche sulla strada, e nessuno! O dunque?…

— Ho capito; — disse allora ridendo e grattandosi la parrucca, — si vede che quella vocina me la sono figurata io. Rimettiamoci a lavorare.

E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di legno.

— Ohi! tu m’hai fatto male! — gridò rammaricandosi la solita vocina.

Questa volta maestro Ciliegia resta di stucco, cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana. Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo spavento:

— Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?… Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli… O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno? Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io!

E così dicendo, agguantò con tutt’e due le mani quel povero pezzo di legno e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza.

Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!

— Ho capito, — disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca, — si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la sono figurata io! Rimettiamoci a lavorare.

E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio.

Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, sentì la solita vocina che gli disse ridendo:

— Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo!

Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra.

Il suo viso pareva trasfigurato, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.

Carlo Collodi, Capitolo primo di Pinocchio

mercoledì 26 novembre 2008

"I've seen things you people wouldn't believe.

Attack ships on fire off the shoulder of Orion.
I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhäuser Gate.
All those... moments will be lost in time,
like tears... in rain.

Time to die."



I don't know why he saved my life. Maybe in those last moments he loved life more than he ever had before. Not just his life - anybody's life, my life. All he'd wanted were the same answers the rest of us want. Where did I come from? Where am I going? How long have I got? All I could do was sit there and watch him die.

Roy Batty - Rick Deckard, finale di Blade Runner

mercoledì 15 ottobre 2008

E perché non imparare questi testi a memoria? In nome di che cosa non appropriarsi della letteratura? Forse perché non si fa più a tempo? Vorremmo lasciare volar via pagine simili come foglie morte solo perché non è più stagione? E' davvero auspicabile non trattenere simili incontri? Se questi testi fossero persone, se queste pagine eccezionali avessero volti, dimensioni, una voce, un sorriso, un profumo, non passeremmo il resto della vita a morderci le mani per averli lasciati scappare via? Perché condannarci a conservarne solo una traccia che sbiadirà fino a essere solo il ricordo di una traccia... [...] In nome di quale principio, questo scempio? Unicamente perché i professori di una volta erano noti per farci recitare poesie spesso idiote e perché agli occhi di alcuni vecchi rimbambiti la memoria era più un muscolo da allenare che una biblioteca da arricchire? Ah! Quelle poesie settimanali di cui non capivamo nulla, ognuna delle quali prendeva il posto della precedente, come se ci esercitassero soprattutto all'oblio! C'è da chiedersi se i nostri professori ce le dessero perché le amavano o invece perché i loro maestri avevano ripetuto loro in continuazione che appartenevano al Pantheon delle Lettere Morte. Anche quelli, me ne hanno appioppati di zero! E ore di punizione! "Tanto per cambiare, Pennacchioni, non abbiamo imparato il testo a memoria!" Ma sì, signor maestro, ancora ieri la sapevo, l'ho recitata a mio fratello, solo che ieri sera era una poesia, ma lei stamattina si aspetta un testo a memoria, e questo trabocchetto mi blocca.
[...]
Imparando a memoria, non supplisco a nulla, aggiungo a tutto.
[...]
"Ma come, professor Pennacchioni, fa studiare i testi a memoria? Mio figlio non è più un bambino!". Suo figlio, cara signora, sarà sempre un bambino, un figlio della lingua, e anche lei un piccolo bebè, e io un ridicolo marmocchio, e tutti quanti noi minutaglia trascinata dal grande fiume scaturito dalla sorgente orale delle Lettere, e suo figlio vorrà sapere in quale lingua nuota, che cosa lo tiene a galla, lo disseta e lo nutre, e vorrà farsi lui stesso portatore di tale bellezza, e con quale orgoglio!, gli piacerà tantissimo, dia retta a me, il gusto di quelle parole in bocca, i razzi illuminanti di quei pensieri nella testa, e scoprire le prodigiose capacità della sua memoria, la sua infinità duttilità, questa cassa di risonanza, il volume inaudito a cui far cantare le frasi più belle, riecheggiare le idee più chiare, andrà pazzo per questo nuoto sublinguistico quando avrà scoperto la grotta insaziabile della propria memoria, adorerà tuffarsi nella lingua, pescarvi i testi in profondità, e per tutta la sua vita saperli lì, costitutivi del suo essere, poterseli recitare all'improvviso, dirli a se stesso per sentire il sapore delle parole. Portatore di una tradizione scritta che per merito suo tornerà a essere orale, forse li reciterà a qualcun altro, per condividerli, per il gioco della seduzione, o per fare il saccente, è un rischio da correre. Così facendo si ricongiungerà con l'epoca che precede la scrittura, quando la sopravvivenza del pensiero dipendeva solo dalla nostra voce. Se lei la chiama regressione, io lo chiamo ricongiungimento! Il sapere è innanzitutto carnale. Le nostre orecchie e i nostri occhi lo captano, la nostra bocca lo trasmette, Certo, ci viene dai libri, ma i libri escono da noi. Fa rumore, un pensiero, e il piacere di leggere è un retaggio del bisogno di dire.

Daniel Pennac, da Diario di scuola

sabato 6 settembre 2008


Mio caro Malacoda,
Sono reduce da una settimana stressante. Mi sono travestito da giornalista e mi sono intrufolato nei padiglioni della Fiera di Rimini dov’era in corso il Meeting per l’amicizia fra i popoli. Non è cosa per noi, ma è comunque un’esperienza utile, aiuta a identificare il nemico. E il nemico, è stato chiaro una volta per tutte, non è il bene, non sono i “valori” di cui i cristiani e gli uomini di buona volontà si fanno alfieri; il nemico è uno solo: il nemico è l’uomo. Non l’umanità, l’uomo. Quello singolo, concreto, quello che dice “io”, quello che si sente morire quando è ammalato, che si sente felice quando è innamorato, quello che ti deruba, che uccide, che aiuta gli altri oppure li maledice… quello che sa dire “tu”. Ne ho incontrati tanti fra i settecentomila del Meeting e ne ho tratta una conclusione: alla fine è questione di teoria economica, una teoria del valore. Non i valori, ma il valore. Ho incontrato una donna ugandese malata di Aids, condannata a convivere (e morire) con la sua malattia, ma è una donna che si è sentita dire: “Tu vali più della tua malattia” e ha scoperto che è vero. L’ha scoperto sulla sua pelle e su quella di suo figlio, non le hanno detto che la famiglia è un valore, l’hanno guardata commossi per quello che era, fino a farla piangere. Ho incontrato una donna che vive tra i favelados in Brasile, una che un giorno ha guardato in faccia il capomafia del suo quartiere. “Che guardi donna, sai chi sono io e quanti ne ho ammazzati?”. “So chi sei e so che non sei quello che hai fatto”. “Voglio cambiare, mi puoi aiutare?”. “Vieni a trovarmi”. Ho stretto una mano che ha ucciso, diciamo che mi sentivo a casa, poi ho guardato l’assassino negli occhi e l’avrei ucciso io: non rivendica la sua innocenza, non vuole sconti, aspetta la fine condanna e dice che può essere libero anche dentro; sulla maglietta aveva una scritta: “Vale la pena”, assurda se non si vedesse che per lui è vera. Ho incontrato un uomo che raccoglie moribondi per strada e tiene loro la mano finché muoiono: “Gratitudine –mi ha detto-. Ero moribondo io, e un uomo mi ha tenuto la mano finché non è morto lui. Che posso fare di diverso?”. Ma si può vivere così? Ho parlato a lungo con uno scrittore ebreo, uno scampato alla Shoah, mi ha raccontato degli orrori dei nazisti, ma anche di quelli di profughi ebrei, delle violenze sui bambini, delle miserie di cui si macchia l’uomo che vuole sopravvivere; a un certo punto ha detto: “A quei tempi nessuno sapeva cosa fare della vita che aveva salvato. Io ho chiesto a un vecchio se mi insegnava a pregare. Lui mi picchiava, ma ne è valsa la pena”. Mentre mi aggiravo per i padiglioni della Fiera mi sentivo accerchiato da tremila “volontari”, lavorano gratis una settimana e anche loro ripetono che “ne vale la pena”, uno di loro mi ha citato uno scrittore francese che già ci procurò grane nel secolo scorso, Paul Claudel: “A che vale la vita se non per essere data?”. E qui ho capito una cosa paradossale: quando si dice che una cosa non ha prezzo, di solito si intende che ne ha uno altissimo e che solo pochi possono permettersela. Questi strani esseri che abitano da protagonisti il mondo senza complessi di inferiorità quando dicono che una cosa non ha prezzo intendono dire che è gratis e, guardandoti stupito che tu non capisca, ti dicono: “Che cosa darà l’uomo in cambio di se stesso?”. Per fortuna è finito, ora sui giornali e dai pulpiti si tornerà a parlare di valori. Noi ci saremo.
Tuo affezionatissimo zio
Berlicche

Da Le nuove lettere di Berlicche del Tempi del 4 settembre 2008